L’obiettivo: migliorare la qualità assistenziale

Ancora oggi nella comune pratica clinica, il problema del rischio di infertilità indotta dalle terapie utilizzate per la cura delle neoplasie è un argomento poco discusso nel colloquio medico-paziente, anche in ambiente specialistico.

Raramente si fa una stima del rischio stesso e quasi mai si sceglie la strategia terapeuticatenendo conto del rischio gonadotossico in relazione all’età e, soprattutto, al desiderio di procreazione.

Al fine di migliorare la qualità assistenziale, lo scopo principale del progetto è quello di istituire un gruppo multidisciplinare su base regionale altamente specializzato per la valutazione del rischio di infertilità in giovani che hanno una diagnosi di cancro.


Il progetto è finalizzato a:


Nella donna, in particolare, nella programmazione della strategia di preservazione della fertilità più idonea, è importante analizzare attentamente la singola paziente, considerandone il tipo di patologia, la gravità e prognosi della neoplasia, l’eventuale ormonosensibilitàdel tumore e la necessità di iniziare quanto prima la terapia antineoplastica.

La scelta tra i diversificati programmi di preservazione della fertilità, rispondenti alle variabili esigenze cliniche, deve essere affrontata con un approccio multidisciplinare. Per ogni singolo caso, infatti, è prioritario valutare gli svantaggi e i vantaggi all’interno di un team idoneo costituito da un ginecologo, un oncologo, un embriologo, un endocrinologo e uno psicologo.

Gli aspetti prognostici e le priorità dovranno essere sempre esaminati e discussi con la paziente, la quale ha diritto a un opportuno “counseling”.

In aggiunta, in relazione alla valutazione prognostica e, quindi, del rapporto rischi/benefici, è indispensabile stimare la riserva follicolare della paziente stessa attraverso parametri anamnestici, endocrini ed ecografia.


A tale scopo i “markers” di riserva ovarica oggi in uso sono:


  • Concentrazioni ematiche dell’FSH nella seconda-terza giornata del ciclo

  • Concentrazioni ematiche di Inibina B

  • Conta ecografica dei follicoli antrali (AFC)

  • Dosaggio sierico dell’ormone anti-Mülleriano (AMH).

Particolare considerazione merita quest’ultimo parametro, oggetto di notevole interesse da parte della comunità scientifica. Si tratta di una molecola che, nel maschio, è prodotta dalle cellule del Sertoli mentre nelle femmine è rilasciata dai follicoli.

Più specificamente, l’AMH viene secreto dalle cellule della granulosa dei follicoli preantrali e dei piccoli follicoli antrali, con il compito di regolare la crescita follicolare e di inibire il reclutamento e la crescita dei follicoli non dominanti. Oggi si fa riferimento all’ AMH per definire la riserva ovarica residua.

La prima cosa da stabilire è se la terapia antitumorale possa essere dilazionata onde consentire, quando sufficientemente sicuro, una stimolazione ovarica. In questo caso, in accordo con gli oncologi, si deve valutare se è possibile procrastinare il trattamento antiblastico di almeno 20-40 giorni.

Se non c’è rischio effettivo per la donna (né per il ritardo terapeutico, né per la procedura di stimolazione ovarica), si può propendere verso la crioconservazione ovocitaria, previa stimolazione ormonale.

In tali casi, se la neoplasia non è ormono-responsiva si utilizza un protocollo standard di induzione dell’ovulazione; in caso contrario, si preferisce effettuare una stimolazione con inibitori di aromatasi (letrozolo).

In numerosi studi clinici gli inibitori delle aromatasi, in associazione a basse dosi di gonadotropine, sono stati testati in regimi di stimolazione ovarica in pazienti con carcinoma mammario, anche in stadi avanzati ed in presenza di positività per i recettori estrogenici.

A fronte di una dimostrata validità, il letrozolo in giovani donne con carcinoma mammario può essere utilizzato per la sua capacità di modulare il picco di estradiolo e, quindi, ridurre i rischi associati alla stimolazione. Più specificamente, il principio di base è quello di ottenere una crescita follicolare multipla mediante l’uso di gonadotropine esogene, senza che questo si associ ad un incremento dei livelli sierici di estrogeni.

Il protocollo prevede l’uso di 5 mg/die di letrozolo a partire dal secondo giorno del ciclo, seguito dopo due giorni dall’aggiunta di una dose giornaliera di FSH ricombinante (r-FSH) di 150 UI. L’antagonista del GnRH va somministrato quando le dimensioni del follicolo dominante hanno raggiunto i 12-14 mm, al fine di prevenire picchi prematuri di LH che potrebbero compromettere l’esito del trattamento.

Il triggering può essere effettuato con 10.000 UI i.m. di hCG oppure con 2 fl di triptorelina acetato 0,1 mg/mL da somministrare in presenza di almeno un follicolo >17 mm. Infine, il trattamento con il letrozolo è ripreso dopo il “pick up” ovocitario e continuato fino al riscontro di livelli di estradiolo inferiori a 50 pg/ml.

Se è cruciale iniziare una chemio e/o radioterapia in tempi brevi, oppure sia fortemente sconsigliata la stimolazione ovarica per la presenza di un tumore altamente ormonosensibile, la letteratura suggerisce strategie quali il congelamento di ovociti immaturi, aspirati in corso di ciclo spontaneo o la criopreservazione del tessuto ovarico, procedure, queste, che vengono appunto attuate senza alcuna stimolazione endocrina.

La procedura maggiormente supportata da evidenze di efficacia è la crioconservazione del tessuto ovarico. In queste pazienti, quindi, il congelamento del tessuto ovarico rappresenta un’ideale soluzione per la tutela della fertilità evitando alla paziente l’esposizione ai dosaggi ormonali dei regimi comunemente utilizzati.

Con questa metodica sono state ottenute nel mondo, dal 2004 ad oggi, circa 30 gravidanze di cui il maggior numero in Danimarca presso il Centro coordinato da C. Y. Andersen.

È una tecnica di rapida esecuzione finalizzata al congelamento di un elevato numero di follicoli primordiali che, data la loro migliore resistenza all’insulto del congelamento/scongelamento rispetto alle cellule mature, sopravvivono in altissima percentuale. I campioni di corticale ovarica da crioconservare sono prelevati attraverso tecnica laparoscopica prima dell’inizio del trattamento radio e/o chemioterapico.

Il tessuto ovarico criopreservato/scongelato prima di essere reimpiantato nella paziente deve essere attentamente testato a mezzo di esami in vitro (metodiche istologiche, immuno-istochimiche e tecniche di biologia molecolare).

In seguito alla guarigione è possibile procedere a un secondo intervento per il reimpianto dei frammenti scongelati in sedi anatomiche prestabilite (ovaio contro-laterale, peritoneo ecc.) al fine di favorire la ripresa funzionale del tessuto stesso e, quindi, l’esecuzione di tecniche di riproduzione assistita.

Sono indice di successo del reimpianto il riscontro di un aumento delle concentrazioni ematiche di estradiolo e della riduzione di quelle di FSH, che possono raggiungere valori inferiori a 20 UI/l.

I tempi di attecchimento possono variare riguardo al tipo di tecnica utilizzata sia per il prelievo ovarico sia per il reimpianto. Per ogni reimpianto è possibile una ripresa della ciclicità ovarica e mestruale di circa 1-2 anni. Durante tale periodo è possibile stimolare la paziente con una mild stimulation (r-FSH a basse dosi associato all’antogonista del GnRH) per procedere con procreazione medicalmente assistita (PMA) di II livello.

Va tuttavia rilevato che il principale obiettivo dell’autotrapianto del tessuto ovarico è rappresentato dalla ripresa della fertilità e dall’incremento delle probabilità di concepimento poiché per il ripristino della funzionalità endocrina è sicuramente più vantaggiosa la terapia ormonale sostitutiva.

La letteratura identifica, allo stato attuale, i trapianti ortotopici come maggiormente efficaci rispetto agli eterotopici. Il trapianto può essere attuato più volte in differenti momenti della vita della paziente se non si raggiunge da subito il successo sperato o se si desiderano più gravidanze.

Nei casi in cui non sia possibile criopreservare ovociti o tessuto ovarico, verrà preso in considerazione l’impiego di trattamenti farmacologici protettivi dell’ovaio. In tal senso, l’impiego di analoghi del GnRH in associazione alla chemioterapia ha dimostrato di ridurre il rischio di amenorrea permanente nelle donne con carcinoma mammario sottoposto a chemioterapia adiuvante. Saranno, inoltre, implementate opportune sperimentazioni atte a valutare l’efficacia di nuove terapie ovaio-protettive.

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